Esperimenti sugli animali con nuovi materiali
Black rat used in an experiment

Esperimenti sugli animali con nuovi materiali

Tutti i prodotti che devono o potrebbero potenzialmente venire a contatto con gli esseri umani sono testati per esaminarne la biocompatibilità. I test di biocompatibilità misurano il modo in cui il materiale interagisce con il sistema biologico per verificare che esso non causi danni agli umani. Questa pratica è al confine fra gli interessi dell’industria, della ricerca biomedica e della ricerca di biomateriali per scopi medici. Vengono testati ad esempio quei materiali usati nelle operazioni di inserimento di bypass e di pacemaker, e che si trovano nelle placche usate per operazioni post-traumatiche e per procedure dentistiche. Vengono testati anche materiali non legati alla medicina, come la plastica usata per produrre bottiglie, borse e altri prodotti di uso quotidiano, come anche altri materiali utilizzati nell’industria, i cui effetti sull’uomo sono sconosciuti o conosciuti solo parzialmente.

Storicamente i materiali sono sempre stati testati sull’uomo per valutarne la biocompatibilità. Ma ora questa pratica è considerata inaccettabile, e perché un materiale sia considerato biocompatibile, è necessario passare per un procedimento di più fasi. Questo procedimento è costituito da test in vitro, test in vivo (per cui ora vengono usati animali al posto degli umani) e test clinici o in-use. Tutte le fasi della sperimentazione fanno uso di diverse procedure e sollevano delle questioni etiche.

Tipi di test

Test in vitro

I test in vitro non fanno uso di organismi viventi ma di cellule, tessuti e organi. Questi test sono effettuati in provetta o su piastre di Petri. In ogni caso, per procurarsi le parti che saranno usate nel test, gli animali vengono uccisi o feriti, cosicché si possano rimuovere i tessuti, gli organi od altre parti del corpo.

Test in vivo

Le parole “in vivo”, che in latino significano “in vita”, descrivono chiaramente che questi test consistono nella sperimentazione su animali vivi, i quali subiscono una aggressiva applicazione del materiale che viene testato. I materiali vengono spesso inseriti negli animali non umani per via sottocutanea (sotto la pelle), intramuscolare (nel muscolo), intravascolare (nei vasi sanguigni) o nelle ossa. I test in vivo sono spesso effettuati ripetutamente anche dopo che un materiale sia già stato immesso nel mercato, per controllare problemi che non siano stati evidenziati da studi precedenti, o per testare nuovi usi o cambiamenti del materiale.

Test clinici e in-use

I test in-use sono diversi dai test in vivo in quanto i materiali sono testati in condizioni identiche a quelle del loro futuro uso nel mondo reale. Per questo motivo i test in-use fanno uso di animali non umani che abbiano somiglianze fisiologiche agli umani, come cani e scimmie, al contrario dei roditori. Quando questi test vengono effettuati sugli umani, vengono tipicamente chiamati test clinici. In teoria le due procedure potrebbero essere uguali, ma in pratica non lo sono. Gli umani sono trattati con rispetto e i rischi vengono minimizzati. Questo non succede con gli animali non umani che vengono utilizzati in tutti i modi necessari senza molta considerazione per le loro sofferenze. Inoltre essi vengono abitualmente uccisi, nonostante il fatto che uccidere l’animale dopo il test non abbia niente a che fare con il test in sé.

Alcune procedure usate per testare i materiali

Le procedure specifiche usate per testare i materiali sugli animali causano loro dolore e molta sofferenza, portandoli spesso alla morte. Alcuni esempi dei test standard sono i seguenti:

Test sull’irritazione della membrana mucosa

Questi test determinano se un materiale possa causare infiammazioni alle membrane mucose. All’inizio del test, la sostanza potenzialmente irritante è applicata alla membrana mucosa o inserita al suo interno. Diverse settimane dopo, gli animali sono fotografati e uccisi per effettuare test istopatologici (al microscopio) sul tessuto e per determinare la reazione infiammatoria causata dal materiale.

Test sulla dentina

Questi test sono simili ai test cutanei. Tuttavia, al posto della pelle, essi testano la biocompatibilità con la polpa dentale.

Permeabilità della membrana cellulare

Un altro modo per misurare la citotossicità di un materiale (il livello di tossicità sulle cellule) è quello di valutare i cambiamenti nella permeabilità della membrana cellulare. Vengono usati coloranti per tingere la cellula, per far sì che la misurazione e l’identificazionene siano facilitate.

Uso di materiali barriera

Questi test consistono in una sostanza testata in vitro (in una provetta), ma con una barriera che viene aggiunta fra la sostanza da testare e le cellule su cui è testata. Ad esempio, i polimeri vegetali come l’agar-agar (una gelatina che deriva dall’alga rossa) sono spesso usati come barriere. Il materiale barriera blocca in certa misura il contatto fra il materiale da testare e le cellule su cui è testato. Ciò viene effettuato per riprodurre più fedelmente quello che succede negli organismi viventi, facendo sì che gli studi siano più applicabili alle realtà cliniche.

Test di crescita cellulare

L’obiettivo di queste procedure è quello di determinare il numero di cellule che cresce durante il testo come conseguenza dell’inserimento del materiale. Il materiale da testare è posizionato a contatto diretto con la coltura di cellule su una piastra. Se il materiale è citotossico (tossico per le cellule), le cellule non cresceranno nel punto in cui esso viene posizionato e in sua prossimità. Le misurazioni di densità cellulare possono essere descritte qualitativamente, semi-qualitativamente o quantitativamente per determinare il livello di biocompatibilità. Questi test vengono utilizzati per misurare la capacità antimicrobica di certi materiali in relazione a microrganismi patogeni (organismi capaci di sviluppare malattie) Il numero di cellule che vengono uccise dalla sostanza del test dà un’indicazione della citossicità del materiale.

Biosintesi enzimatica

In questi test i cambiamenti del DNA sono misurati per determinare l’effetto di un materiale sulla sintesi proteica. Le cellule (precursori) marcate con radioisotopi (sostanze chimiche radioattive) vengono aggiunte alla coltura di cellule. In seguito vengono effettuate osservazioni per misurare quali precursori vengono incorporati nel DNA o nella proteina e per contarli.

Test di Ames

Questo è un tipo di metodo in vitro che serve per valutare il potenziale di un materiale o di un composto chimico di indurre o aumentare la mutazione delle cellule intorno a sé (capacità mutagena) Dato che il cancro è collegato al danneggiamento del DNA, questo metodo serve anche a stimare il potenziale carcinogenico del composto.

Il test di Ames misura la capacità di un materiale potenzialmente mutageno di causare mutazioni in un ceppo di batteri Salmonella tymphimurium modificati. Normalmente, i batteri hanno la capacità di sintetizzare l’aminoacido istidina. Questo test utilizza batteri con una mutazione isolata nei geni che dovrebbero sintetizzare l’istidina, che non permette loro di farlo.1

In genere viene aggiunto un estratto di fegato di ratto ai batteri istidina-dipendenti all’inizio del test, per creare qualcosa simile alle condizioni metaboliche dei mammiferi, anche se adesso è possibile utilizzare estratto di fegato umano.

Dato che l’istidina è un aminoacido essenziale per i batteri e la specie testata non ha la capacità di sintetizzarla, l’unico modo che essi hanno di sopravvivere è quella di mutare ed iniziare a sintetizzarla. Il test osserva l’abilità di un materiale di causare questa mutazione.

Durante il test, i batteri sono disposti su una lastra di agar con una piccola quantità di istidina, che permette ai batteri di sopravvivere e riprodursi solo durante il periodo iniziale, finché l’aminoacido non si esaurisce. Essi restano in contatto con il materiale potenzialmente mutageno che viene testato per 48 ore. Ogni batterio che sopravvive e si riproduce durante questo momento può farlo solo perché è mutato per avere la capacità di produrre istidina. Il numero di colonie alla fine è confrontato con il numero di colonie in un controllo dove non è stato aggiuntoil materiale potenzialmento mutageno. L’efficacia del materiale potenzialmente mutgeno nel causare la mutazione è considerata proporzionale al numero di colonie di batteri alla fine del test. Un gran numero di colonie di batteri indica un alto potenziale mutageno.

Test di Styles

This is similar to the Ames test, but it uses mammalian cells instead of bacterial cells.

Testing models

In passato le procedure standard per testare i materiali per la biocompatibilità seguivano una precisa struttura piramidale. Il primo livello è il test in vitro, che non deve essere necessariamente applicabile all’uso finale del materiale.2 In seguito c’è il test in vivo con gli animali e, infine, il test in-use, o clinico. Solo i materiali che avevano passato il primo livello potevano essere valutati nel secondo livello. Il modello è piramidale perché nel primo livello tutti i materiali e le sostanze sono testate ma alcune vengono scartate, cosi nel secondo livello bisogna testare meno materiali e meno sostanze.

In questo modello i test iniziali non possono sempre prevedere il comportamento del materiale nel suo uso reale. Per testare questo, sono necessari i test dell’ultimo livello (in-use/clinici).

Al momento il modello piramidale è ancora usato, ma è meno rigido. Ciò è dovuto al fatto che i test effettuati al primo e al secondo livello (in vitro e in vivo) sono considerati meno importanti rispetto al passato. Inoltre, le ricerche che vengono effettuate per ogni livello, sono più simili fra loro. Piuttosto che una netta separazione fra diversi livelli, l’intero processo è visto oggi in modo olistico. I diversi tipi di test sono parti di un processo continuo che si sviluppa insieme all’esperienza clinica e al materiale che viene testato.

Inoltre, gli sforzi compiuti per diminuire la sperimentazione sugli animali non umani hanno portato ad un aumento dei test in vitro. Lo stretto modello piramidale che si basava molto sui test in vivo è cambiato a causa di nuovi sviluppi nei test in vitro, che riescono a simulare meglio le condizioni degli organismi viventi, anche se generalmente questi test fanno ancora uso di prodotti animali come tessuti e estratti di organi.3 Ci sono anche stati miglioramenti nell’uso dei materiali barriera appropriati per specifici test, colture cellulari e tessuti. Gli sviluppi nell’identificazione di marcatori clinici biologici rilevanti, come cambiamenti nella trascrizione del DNA4 o la presenza di alcune sostanze chimiche per misurare gli effetti biologici dei materiali, hanno contribuito a migliorare gli standard dei test.5

Oggi i tre tipi di test di biocompatibilità sono spesso effettuati simultaneamente. Ad esempio, un test in vitro può essere usato per ricercare una risposta biologica specifica osservata durante i test clinici, o dopo che il materiale sia stato introdotto sul mercato.


Ulteriori approfondimenti

Animal Procedures Committee (2003) Review of cost-benefit assessment in the use of animals in research, London: Home Office.

Atchley, F. W. (1991) “Genes trees and the origins of inbred strain of mice”, Science, 254, pp. 554-558.

Commissione Europea (2013) Settima relazione sulle statistiche riguardanti il numero di animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici negli Stati membri dell’Unione europea, Bruxelles: Commissione Europea [consultato il 24 gennaio 2017].

Cothran, H. (ed.) (2002) Animal experimentation: Opposing viewpoints, San Diego: Greenhaven.

DeGrazia, D. (1999) “The ethics of animal research: What are the prospects for agreement?”, Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, 8, pp. 23-34.

Festing M. (1979) Inbred strains in biochemical research, London: Macmillan.

Frame, J. W. (1980) “A convenient animal model for testing bone substitute materials”, Journal of Oral Surgery, 38, pp. 176-180.

Hench, L. L. & Thompson, I. (2010) “Twenty-first century challenges for biomaterials”, Journal of the Royal Society Interface, 7, suppl. 4, pp. S379-S391.

Krug, H. F. & Wick, P. (2011) “Nanotoxicology: an interdisciplinary challenge”, Angewandte Chemie International Edition, 50, pp. 1260-1278.

LaFollette, H. & Shanks, N. (1997 [1996]) Brute science: Dilemmas of animal experimentation, new ed., New York: Routledge.

Langer, R. & Tirrell, D. A. (2004) “Designing materials for biology and medicine”, Nature, 428, pp. 487-492.

MacGregor, J. T. (2003) “The future of regulatory toxicology: Impact of the biotechnology revolution”, Toxicology Science, 75, pp. 236-248.

Muschler, G. F.; Raut, V. P.; Patterson, T. E.; Wenke, J. C. & Hollinger, J. O. (2010) “The design and use of animal models for translational research in bone tissue engineering and regenerative medicine”, Tissue Engineering. Part B, Reviews, 16, pp. 123-145.

Nel, A.; Xia, T.; Mädler, L. & Li, N. (2006) “Toxic potential of materials at the nanolevel”, Science, 311, pp. 622-627.

Shanks, N.; Greek, R. & Greek, J. (2009) “Are animal models predictive for humans?”, Philosophy, Ethics, and Humanities in Medicine, 4 (2), pp. 1-20 [consultato il 17 aprile 2013].

Tannenbaum, J. & Rowan, A. N. (1985) “Rethinking the morality of animal research”, Hastings Center Report, 15 (5), pp. 32-43.


Note

1 Gli articoli originali in cui si discuteva questo metodo sono stati pubblicati quarant’anni fa. Vedi: Ames, B. N.; McCann, J. & Yamasaki, E. (1975) “Methods for detecting carcinogens and mutagens with the salmonella/mammalian-microsome mutagenicity yest”, Mutation Research, 31, pp. 347-364. Maron, D. M. & Ames, B. N. (1983) “Revised methods for the salmonella mutagenicity test”, Mutation Research, 113, 173-215.

2 Molti tipi diversi di test in vitro possono essere effettuati. Chiamati anche “test in provetta”, questi test sono generalmente eseguiti in provette, piastre di Petri o attrezzature simili. Per fornire solo un esempio dell’area di biocompatibilità dei materiali usati per i bendaggi, le cellule sono poste nell’agarosio (un materiale estratto dalle alghe marine) e tagliate con altre sostanze chimichee per rilasciare il DNA. Esse sono esaminate per testarne la genotossicità. Vedi: Keong, L. C. & Halim, A. S. (2009) “In vitro models in biocompatibility assessment for biomedical-grade chitosan derivatives in wound management”, International Journal of Molecular Science, 10, pp. 1300-1313 [consultato il 22 aprile 2013].

3 Jessen, B. A.; Mullins, J. S.; de Peyster, A. & Stevens, G. J. (2003) “Assessment of hepatocytes and liver slices as in vitro test systems to predict in vivo gene expression”, Toxilogical Sciences, 75, pp. 208-222 [consultato il 22 aprile 2013].

4 Johansson, H.; Lindstedt, M.; Albrekt, A.-S. & Borrebaeck, C. A. K. (2011) “A genomic biomarker signature can predict skin sensitizers using a cell-based in vitro alternativeto animal tests”, BMC Genomics, 12, p. 399 [consultato il 26 novembre 2012].

5 Orfeas L.; Tighiouart, H.; Perianayagam, M.; Kolyada, A.; Han, W. K.; Wald, R.; Bonventre, J. V. & Jaber, B.L. (2009) “Comparative analysis of urinary biomarkers for early detection of acute kidney injury following cardiopulmonary bypass”, Biomarkers, 14, pp. 423-431 [consultato il 26 settembre 2012].

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